Ma non me l'hai ancora data?
di Corinna De Cesare
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Ho iniziato a frequentare le redazioni dei giornali a 23 anni. Ero così (foto). Ricordo ancora le ronde dei colleghi davanti alla redazione dove facevo il praticantato: passavano lì davanti solo per guardarmi come se fossimo allo zoo. Passavano e ripassavano e più lo facevo e più tentavo di nascondermi dietro lo schermo del computer...Ho iniziato a non mettere i tacchi, a non truccarmi, a non mettere le gonne. Ricordo che a un certo punto ho persino abbassato la levetta della sedia in modo che lo schermo del computer mi nascondesse del tutto. Ho trascorso così i primi anni nel mondo del giornalismo. Un giorno, eravamo in pausa pranzo e mentre fumavamo tutti una sigaretta fuori, dopo il caffè, davanti a una ventina di colleghi, TUTTI MASCHI uno di loro mi guarda e fa:
«Ma non me l’hai ancora data?»
Erano passati diversi anni da quel primo giorno, dalla levetta della sedia abbassata e dai vestiti castigati.
«Ma come, non te ne sei accorto? - GLI HO RISPOSTO - Te l’ho mandata via mail» .
Volevo scappare, scappare lontano, sparire, fuggire. E invece sono rimasta. Il punto è che il mio mestiere è quello di scrivere diceva Natalia Ginzburg. Lo dico anche io. E certo, da bambina avevo sognato diverse cose: volevo fare la parrucchiera, la cantante, l’attrice ma mentre sognavo non avevo mai smesso di scrivere. Diari, fogli, appunti. Quando ho completato il primo ciclo universitario, ho ritrovato un disegno fatto in terza elementare. C’era scritto: il mondo sui giornali.
Non è stato facile. Sono cresciuta in una famiglia di ferrovieri, non di medici, né di avvocati, notai o giornalisti. Nessun giornalista pervenuto tra i miei antenati degli ultimi 150 anni e questo, vi assicuro, se vivi in Italia può essere un problemino. Ho fatto l’esame di stato da giornalista professionista con la macchina da scrivere con cui mio nonno preparava le fatture da imbianchino. Sono andata avanti nonostante gli sguardi maschili e nonostante il mio corpo eppure dai 23 ai 34 anni ho vissuto la mia vita professionale in una sorta di bolla. Continuavo a correre, fare esami, prendere il master, l’abilitazione: strappavo lungo i bordi, direbbe oggi qualcuno. Mi sono accorta solo dopo, con il tempo, che avevo sprecato un sacco di anni della mia vita e della mia carriera ad auto sabotarmi, a coccolare la sindrome dell’impostore e soprattutto a cercare la legittimazione. Degli uomini ovviamente. Capiredattori, giornalisti, editorialisti, direttori, uomini di cultura che fino a quel momento non mi avevano dato voce e spazio. Avevo sbagliato tutto, perché nessuno doveva concedermi spazio, io quello spazio dovevo solo prendermelo. Chi è iscritto alla newsletter dal primissimo numero, questa storia la conosce già ma voglio ricordarla: in una scena di «Knock Down the House», il documentario pluripremiato che racconta la corsa di quattro donne alla conquista di un posto al Congresso americano, Alexandria Ocasio-Cortez è seduta sul suo divano in soggiorno, mentre respira profondamente e ripete continuamente una frase:
«Devo occupare spazio, devo occupare spazio. Io sono qui».
Dopo poche ore, lei, una giovane ex barista del Bronx, sarebbe andata in tv a sfidare il suo avversario alle primarie democratiche, lo squalo Joe Crowley, uno che veniva da dieci mandati di fila da deputato. La giornalista Dayna Evans ha ricordato quel momento in un bellissimo pezzo per Elle sul womanspreading, la reazione femminile al manspreading, la tendenza dei maschi ad allargare le gambe nel luoghi pubblici — la metro, per esempio — e a prendersi spazio sottraendolo soprattutto alle donne. È la versione fisica del mansplaining, quel neologismo che in italiano traduciamo in «uomini che spiegano cose» (alle donne): il minchiarimento. Come quando un uomo (Ciao Alfonso Signorini) spiega l’aborto alle donne. In un dibattito pubblico sul corpo delle donne, mentre moderavo tre colleghe esperte e un conduttore televisivo famoso di cui non farò il nome (Ciao Costantino Della Gherardesca), quell'uomo si è messo (con tanto di slide) a insegnarci il femminismo. Sono rimasta allibita, al contrario di Ocasio-Cortez che in quel dibattito non diede alcun segno di timore: si prese il suo spazio e trionfò diventando, a soli 29 anni, la più giovane parlamentare donna eletta nella storia statunitense. Io non avevo 29 anni, non stavo diventando parlamentare, non scendevo in politica ma quando, a 34 anni, ho avuto mia figlia mi è parso tutto all’improvviso più chiaro. Ero caduta nel pozzo, come direbbe Natalia Ginzburg e ci sarei caduta ancora tantissime altre volte: sarei stata ancora discriminata, giudicata per i capelli biondi, mi avrebbero ancora guardato il culo o le tette e non avrebbero ascoltato mai quello che avevo da dire. Ma avrei fatto esattamente quello per cui sono nata: scrivere. È così che ho iniziato a pensare a thePeriod. Doveva essere solo una newsletter, è diventato il mio punto a capo. Una community, un club, un podcast in cui la selezione delle notizie non è fatta da maschi bianchi etero cis che ci spiegano le mestruazioni o come dobbiamo allattare. In cui le donne e le minoranze esistono, si raccontano e raccontato i fatti, le esperienze, le notizie da un altro punto di vista ma che potrebbe essere anche il tuo. Il 63% degli articoli sui giornali in Italia è firmato da uomini e questo significa che l’esperienza e la prospettiva maschile finisce per assumere una dimensione universale. Le donne e le minoranze non esistono, sono totalmente invisibili e quando ci sono, appaiono sulle pagine dei giornali non hanno neanche diritto a un NOME E COGNOME ma sono SARA; GIOVANNA; UNA DONNA, IL MAROCCHINO; LA TRANS, la lesbica. Un’assenza, una rimozione che si ripercuote ovviamente sulla selezione delle notizie ma anche sulla percezione dell’opinione pubblica. Abbiamo interiorizzato un mondo di uomini bianchi che riescono a percorrere proficuamente tutte le diverse fasi della vita, a evolversi, a maturare e a diventare saggi. Le donne, le persone LGBTQ+ non ci sono, non esistono e quando appaiono sono ragazzi pestati perché si baciavano in metro, sono unadonna o vittime di femminicidi a cui non viene riconosciuta nemmeno un’identità. Sono raccontate in relazione e in funzione dell’uomo (che le ha ammazzate). Io volevo mettere un punto e a capo e soprattutto volevo passare il microfono. Ed è quello che faccio qui dando spazio e visibilità a uomini e donne, minoranze, persone della comunità LGBTQ+ che non esistono solo durante la sfilata del gay pride. Ma hanno carriere, professionalità, nomi e cognomi, vite che non sono la nostra. E ho scelto thePeriod anche perché significa in inglese ciclo mestruale: le mestruazioni fanno parte di gran parte della nostra vita e ci hanno convinto per secoli che facessero schifo, che non dovessimo neanche chiamarle con il loro nome. Le abbiamo chiamate per anni IL MARCHESE; LE COSE; IL BARONE ROSSO. Ci hanno detto che non potevamo diventare magistrate perché i nostri ormoni avrebbero influenzato persino le sentenze. La primordiale paura che il patriarcato nutre nei confronti dei nostri corpi si traduce anche in questo: la maionese impazzita durante il ciclo, le piante che appassiscono e altre fesserie che ci portiamo dietro dai tempi di Plinio Il Vecchio. Lo scrittore latino sosteneva che “al sopraggiungere di una donna che ha le mestruazioni il mosto si inacidisce, muoiono gli innesti, bruciano i germogli dei giardini, muoiono le api negli alveari, persino il bronzo e il ferro si arrugginiscono all’istante”. E allora mi sono detta io questo nome lo voglio urlare: THEPERIOD per dire che siamo noi Qui, CI SIAMO, ESISTIAMO e occuperemo tutto il nostro spazio. Ho iniziato a raccontare come i media tradizionali sbagliano, quando, perché. E durante la pandemia ho iniziato a fare una rassegna stampa provocatoria in cui TUTTI I GIORNI raccontavo le notizie da femminucce. Donne e minoranze sui media, raccontati poco e tendenzialmente stereotipati. E poi i maledetti errori nella narrazione dei femminicidi, quelli che raccontano QUANTO ERANO BRAVI E GRAN LAVORATORI QUESTI UOMINI che poi hanno AMMAZZATO CON UN UNA TRENTINA DI COLTELLATE MOGLIE E FIGLI. Ancora oggi ci sono pezzi, articoli, servizi televisivi che adottano il punto di vista dell’assassino per raccontare un femminicidio o che parlano di AMORE MALATO, omicidio PASSIONALE. Io rompo il cazzo e alzo la voce, ed esattamente come faceva Ruth Bader Ginsburg, esercito il DISSENSO. Quando negli anni '50 Ruth Bader Ginsburg inizia il suo primo anno di corso alla Harvard Law School, il preside le chiede: «Cosa ci fai qui, a occupare il posto di un uomo?». Lei rispose: «Il posto delle donne è là dove si prendono le decisioni”. Occupiamo questo cazzo di spazio.
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L'autrice
Corinna De Cesare, 39 anni, è giornalista del Corriere della Sera. Founder di thePeriod, il 22 aprile è uscito il suo romanzo d'esordio: "Ciao per sempre", Salani editore
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Una donna con le palle
di Gioia Saitta
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Sono malata di fibromialgia. Una patologia reumatica cronica che interessa il tessuto connettivo di tutto il mio corpo. Ne soffro da dieci anni, ma solo nel 2020 un medico è riuscito a scriverlo nero su bianco su un referto. Sancendo, finalmente, la mia diagnosi. Non che questo cambi nulla, dal punto di vista pratico e burocratico. Continua ad essere una condizione senza cure e senza tutele giuridiche. Ma ha dato finalmente un nome e una faccia a un malessere invalidante che mi aveva prostrato da quando avevo solo vent’anni. Mi ha fatto sentire vista, dopo dieci anni di invisibilità. Fibromialgia, una sindrome che nasconde diverse insidie: i sintomi sono numerosi, spesso simili a quelli di altre patologie. Questo, assieme all’assenza di esami specifici dirimenti, rende molto difficile diagnosticarla. Va fatta quella che chiamano "un’indagine per esclusione". In concreto significa fare analisi per determinare di non avere un’altra malattia, mentre resti in balia di te stessa e della sofferenza, senza altro supporto se non la speranza di trovare una soluzione. Dieci anni di dolore, stanchezza, infiammazioni continue e confusione mentale “senza alcun collegamento o spiegazione apparente”. Dieci anni a girare ospedali per consultare medici poco empatici, che avevano tutti un sorrisetto di circostanza nel dirmi che forse ero solo un po’ stressata. Dieci anni da invisibile, da malata immaginaria, da donna inascoltata. Perché si. Non è solo la presenza di una sintomatologia poco chiara a rendere difficile diagnosticare la fibromialgia. Esiste un ostacolo ulteriore: a soffrirne siamo quasi solo donne. 9 fibromialgici su 10 sono, infatti, di sesso femminile. Cosa cambia? penserete voi. Visto che la fibromialgia è caratterizzata, prevalentemente, dal dolore cronico, la valutazione della sussistenza e della rilevanza del sintomo doloroso è lasciata alla discrezionalità del medico. E quando una donna soffre non possiede la stessa credibilità di un paziente di sesso maschile.
Proprio così. Una donna, in ambito sanitario, viene considerata meno attendibile di un uomo quando si tratta di testimoniare in merito alla propria sintomatologia dolorosa. Le statistiche in questo senso parlano chiaro: secondo l’istituto ISAL, fondazione che si occupa di ricerca nel settore del dolore cronico, le donne sono soggette in misura maggiore a soffrire di patologie dolorose gravi. Ma, allo stesso tempo, c’è minore attenzione da parte della categoria medica verso il dolore femminile. Addirittura, secondo studi recenti, a parità di condizioni cliniche agli uomini vengono prescritti antidolorifici in misura maggiore rispetto alle donne. Nonostante queste siano portate a lamentarsi con più sincerità della propria sofferenza e chiedere aiuto. Il dolore delle donne, in pratica, gode di poca considerazione da parte della scienza. Così come le patologie dolorose che le affliggono. Andiamo oltre la fibromialgia e pensiamo anche alla dismenorrea, alla vulvodinia, all’endometriosi, alla cistite interstiziale. Tutte condizioni invalidanti che inficiano la qualità della vita delle donne da decenni, ma che solo ora iniziano ad essere trattate alla stregua di altre malattie. Perché? Perché culturalmente il dolore delle donne viene circoscritto a una condizione di presunta inferiorità fisica, che non ci permetterebbe di tollerarne una soglia c.d. “normale”. Viene ricondotto troppo spesso e con eccessiva faciloneria a un presunto disturbo psicosomatico. Espressione, quindi, di fragilità psicologica più che di malattia organica. In parole povere siamo donne quindi drammatiche, emotive, ansiose, deboli. Facile tornare indietro nel tempo e sentire l’eco dell’isteria in queste considerazioni così superficiali. Se poi si aggiunge che la maggior parte delle patologie dolorose sono legate, soprattutto, alla sfera sessuale e genitale femminile si raggiunge l’apice di questa condizione critica. Una donna che non riesce ad adempiere ai propri compiti di moglie, madre, cittadina, lavoratrice e partner sessuale in ragione della propria sintomatologia non solo è una paziente ignorata, ma anche una persona inadeguata. Il che innesca un meccanismo di colpa e vergogna nella paziente, la quale fa ancora più fatica a chiedere aiuto professionale. Il dolore delle donne è stato sistematicamente sminuito e marginalizzato. In questi 10 anni da fibromialgica ne ho ricevute di pacche paternalistiche dai medici, materiali e metaforiche:
“Sorridi” “che sarà mai” “ti stai fissando” “sei stressata”.
Qualcuno ha addirittura dato voce ai suoi pensieri più beceri dicendo chiaramente che tutto dipendeva proprio dal fatto che fossi donna e quindi più predisposta biologicamente a una certa emotività. Come lo quantifichi il dolore senza una tabella? Senza esami di laboratorio? Se non puoi misurarlo allora probabilmente non esiste e non ha diritto di essere preso in considerazione. Nel frattempo, però, io avevo iniziato a perdere pezzi di me. Frammenti di quotidianità e spensieratezza, impegni, progetti, il mio stesso futuro. Semplicemente perché “non riuscivo” più a fare quello che avevo sempre fatto, ma nessuno era in grado di spiegarmi perché o come tornare indietro. Il dolore era sempre lì con me. Vivo, cocente, pulsante. Così come la stanchezza, che in certi giorni non mi faceva alzare nemmeno dal letto. Ma ero solo una donnina lagnosa, non una malata vera. Dovevo reagire, tirar fuori le famose “palle”! Avete notato come sia sempre questo attributo maschile che dobbiamo indossare per essere prese sul serio? Tirar fuori le palle per essere vista, ascoltata, creduta. Non più solo nella vita privata o sul lavoro, ma anche in tutti quegli studi medici. Forse per far prendere sul serio il dolore delle donne avremmo dovuto semplicemente essere uomini. Elementare! Perché se fosse un uomo a provare dolore costante durante i rapporti sessuali, come avviene per la vulvodinia o la cistite interstiziale, cosa accadrebbe? Verrebbe detto loro di rilassarsi e non pensarci? Che sono frigidi? Siamo sicuri? Se fosse un uomo a non riuscire ad alzarsi dal divano 4 giorni al mese per dolori legati alle mestruazioni, come avviene nei casi di endometriosi o dismenorrea, invece? Verrebbe loro sottolineato con disprezzo come il ciclo lo abbiano tutti e non è certo una scusa per non presentarsi a lavoro? Il dolore di una donna può davvero essere accantonato così facilmente? Messo a tacere con quell’abile manovra tipica del mansplaining “ora ti dico IO cosa TU senti realmente e soprattutto come dovresti gestirlo”? Il mio percorso di diagnosi sarebbe stato lo stesso se 9 malati su 10 di fibromialgia avessero avuto le famose palle, biologicamente parlando, invece delle ovaie? Il genere, o più specificamente la disparità di genere, influisce sulla tutela della nostra salute? Il sessismo, esplicito o interiorizzato, comporta una compressione di fatto del nostro diritto alla salute in quanto donne? Ci rende meno degne di tutela? Quello che è certo è che dare credibilità a un sintomo sulla base di un pregiudizio implica infliggere una sofferenza ulteriore alla paziente. Ritardare per anni una diagnosi (per l’endometriosi la media è di 9 anni!), dissuadere un soggetto dall’ effettuare altri esami specifici, non presentare un idoneo piano terapeutico sono tutte mancanze gravi. Farlo in ragione del fatto che si ritiene stia simulando o ingigantendo un sintomo solo perché si tratta di una donna, significa comprimere il suo diritto inalienabile all’integrità psicofisica sulla base di una grave disparità di genere. Questo è un errore che non ci possiamo più permettere di compiere, perché il costo della salute non può essere scontato sulle spalle delle donne. Nè pagato con il loro dolore. Da quando ho iniziato questo calvario sento rimbombarmi nelle orecchie quel famoso anatema biblico: “donna, partorirai con dolore”. È quello che si aspettano da noi, vero? Da secoli. Ma non solo al momento del parto. Dovremmo gestire tutto il dolore che la vita ci riserva ignorate e inascoltate. Stoiche. Perché è come se quella sofferenza fosse connaturata alla nostra stessa essenza di donne. E se non riesci a sopportarla, forse, è perché non sei abbastanza: abbastanza forte, abbastanza degna, abbastanza lucida, abbastanza… con le palle.
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L'autrice
Gioia Saitta, romana, classe ‘88. Autrice, giurista specializzata in bioetica, mediatrice familiare e (da gennaio) criminologa clinica. Divulgatrice su temi legati al diritto, condizioni carcerarie, femminilità e sessualità. Appassionata di food&travel è founder e content creator di Ti Ci Porto.
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Un padre femminista
di Lorenzo Gasparrini
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Nella mia attività di divulgatore e formatore, presentarmi come femminista ha suscitato diverse reazioni, tra il piacevole e l’inquietante. Una di queste, che costantemente continua ad accadere, è una reazione alla notizia che sono padre di due maschi, che si può condensare in una battuta: “ah che bello che educhi i tuoi figli a essere femministi”. In realtà, io non ci penso neanche a educarli al femminismo, o in maniera femminista - qualsiasi cosa vorrebbero dire queste due espressioni. I femminismi sono pratiche, forme di vita che vanno scelte con una consapevolezza che non si può avere né presto né tardi, ma solo quando sono capitate alcune esperienze e scambi e studi che ti hanno dato materiale sufficiente per sceglierle. Imporre quelle pratiche, anche solo educativamente, sarebbe tradirle, perché tanti femminismi fanno i loro capisaldi proprio della decostruzione delle gerarchie di potere e della capacità di non subire poteri non richiesti o non esplicitamente accettati. Ricreare quelle forme di potere anche attraverso strutture educative come la famiglia o la scuola significherebbe non aver capito nulla dei femminismi. Già che ci siamo, chiariamo subito un paio di cose: studiare la storia delle donne e dei movimenti LGBTQI+, educare al rispetto delle diversità, alla difesa dei diritti di base nostri e di altri gruppi sociali nei quali non siamo, raccomandare un linguaggio non escludente, tutti questi non sono femminismi: sono il minimo civile da pretendere in questo secolo. Ci siamo arrivat3 grazie a tanti femminismi, ma lo scopo di questi ultimi era far accorgere che si trattava, appunto, del minimo civile da raggiungere, e non di chissà quali rivoluzioni. Ce ne sono ancora da fare tante, di rivoluzioni. Mi sembra più sensato, da padre femminista - o da femminista padre, come ieri sera mi ha chiesto a tavola uno dei miei figli - provare a renderli più sensibili possibile, col loro corpo e col loro linguaggio, alle varie forme di potere che si trovano a vivere, a subire o ad agire. Cerco di insegnare loro che qualsiasi rapporto o rete di rapporti, qual è ad esempio la famiglia, è una rete di affetti ma anche di poteri; c’è in funzione un potente legame di amore e di cura, ma anche di potere e di gerarchia. Non sempre le due cose vanno d’accordo, e dobbiamo imparare tutt3 a distinguerle, per vivere serenamente - o perlomeno provarci - sia quelle interazioni basate sulla cura e l’amore sia quelle basate su una gerarchia e un potere. Nei comportamenti e nelle espressioni le due cose si trovano intrecciate, mescolate, sovrapposte: imparare a distinguerle significa diventare capaci di cogliere la loro possibilità di condizionarci, di distoglierci da quello che ci sta realmente più a cuore, di rovinare giornate, settimane, mesi di vita quotidiana in comune. Allo stesso modo, s’impara a essere l’unə per altrə una sponda critica essenziale, importante: all’interno della rete familiare io posso contare su persone che sono in grado di starmi accanto nei momenti difficili senza invadere i miei spazi, che mi fanno una critica costruttiva e sensata senza urlare o allontanarsi, che sanno respingere uno sfogo fine a se stesso ma sanno incanalare i sentimenti verso qualcosa di energetico per tuttə. Svelando apertamente l’intreccio non voluto, non maligno, di queste forze, io provo a rendere più consapevoli i miei figli della difficoltà di essere genitore e della complessità dell’essere figlə, senza sovvertire quel rapporto ancora dispari che esiste, ma facendo capire perché è ancora necessaria questa iniziale disparità. In più, non permetto a questa differenza di potere di offuscare la possibilità che io dai miei figli impari qualcosa su di loro ma anche su me stesso; perché il loro amore mi nutre e svelandomi, giorno dopo giorno, che loro stanno diventando persone, imparo forme di rispetto, di condivisione, di linguaggio che solo questo tipo di rapporto può raccontare. Le reti affettive e quelle di potere sono costantemente intrecciate in ogni luogo delle nostre vite, in casa come al lavoro e nelle ore di svago. Il mio rapporto tra pari - amicizie, conoscenze virtuali, colleghə di lavoro - si è arricchito formandosi anche grazie al rapporto con i miei figli, che mi hanno letteralmente allenato a essere sensibile a tutta una serie di aspetti della vita in comune tra esseri umani ai quali non avevo mai pensato, che non mi erano mai capitati, che ritenevo secondari. Per quanto possa sembrare una considerazione cinica, la famiglia è anche per chi si trova a comandarla, per chi ne è al vertice, una palestra salutare per imparare quante diversità necessitano della considerazione giusta, quante oppressioni intersecano costantemente le nostre esistenze, rendendoci a volte oppressi, a volte oppressori di qualcun altrə. È così che ho imparato quanto è importante parlare dei miei sentimenti, di quello che provo, delle difficoltà che incontro, dei problemi che vivo in quanto uomo e che spesso non riesco a esprimere - e che questo è un problema tipico del genere maschile, e che loro due, maschi, devono imparare ad affrontare prima possibile. In questo modo, cosa non secondaria, imparo anche io a rapportarmi con chi è più giovane di me, che non sono quel gruppo indistinto de “i giovani” che ancora stupidamente raccontano media e persone ammaestrate dalla loro logica uniformante. Sono persone che parlano altri linguaggi, che avvertono altre sensazioni, che progettano altri sogni, che vivono altri sentimenti. Sono una ricchezza, che, eventualmente, essere femminista di certo non impoverisce.
Tutto questo significa una cosa certa: educo dei rompiscatole, senza dubbio. Spero di far nascere in loro un inizio di quello spirito critico che gli permetterà di riconoscere i condizionamenti cui sono sottoposti dalla società e anche da me come padre, come anche dalla madre; che gli permetterà di riconoscere anche i miei condizionamenti, farmeli notare; che gli consentirà di partecipare alle lotte altrui e costruire le proprie, esprimendosi contro idee e pensieri disumani e violenti, e non contro le persone. Ho già un’aneddotica molto vasta. Il figlio che riesce a ottenere dalla maestra sessista di giocare con pentole e cucina; quello che si scaglia contro la professoressa che fa un’allusione razzista; quello che passa la ricreazione a spiegare al compagno figlio di immigrati che non ha senso che se la prenda “con gli extracomunitari”; quello che difende l’odiosa compagna di classe quando le fanno terribili battute sulla madre malata; quello che protesta perché nei libri certe storie non ci sono, certe figure mancano. Tutto questo è già femminismo intersezionale? Non lo so; di sicuro è un senso di civiltà che spero non perdano. A me sta bene così.
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L'autore
Lorenzo Gasparrini nasce a Roma nel 1972. Durante gli studi di filosofia e una breve carriera accademica in diverse università del centro Italia incontra testi e protagoniste dei femminismi, decidendo così, dopo aver iniziato un percorso di profonda critica personale, di dedicarsi alla diffusione e divulgazione di argomenti riguardo gli studi di genere, soprattutto rivolti a un pubblico maschile. E’ autore di “Perché il femminismo serve anche agli uomini” (Eris, 2020)
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Conosci la tua storia? Certo, sembra paradossale: se l'hai vissuta, la conosci. Eppure un conto è sapere di aver attraversato delle fasi, un altro è attribuire a quelle fasi un nome, un significato; riconoscerle come porzione di un viaggio che facciamo tutte, in un modo o nell'altro. Il Viaggio dell'Eroina per la consapevolezza di te.
Restano pochissimi posti, affrettati!
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